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Intervista a Enrique Vargas

1. PASSEGGIANDO IN SOLITUDINE NEL SILENZIO E NELL’OSCURITÀ (a cura di M. Surianello)

Intervista a Enrique Vargas, nei camerini del Teatro Ateneo di Roma. Davanti a una tazza di te verde, il drammaturgo e regista colombiano, ospite de “Le vie dei festival”, regala frammenti della sua vita e della sua arte.

Roma. Passato, presente e futuro non esistono. Per Enrique Vargas, che ci accoglie nel suo camerino offrendoci una tazza di te verde, sono solo una comoda invenzione. E uscendo dalla chiacchierata con il drammaturgo e regista colombiano – in questi giorni al Teatro Ateneo di Roma ospite de “Le vie dei festival” – si ha una sensazione di perdita della cognizione del tempo.

Pacato e sorridente, con una disponibilità - a raccontare e ascoltare - rara da incontrare tra le persone non solo di teatro, Vargas ci regala oltre un’ora del suo tempo, mentre accanto, per decine di spettatori che da soli (uno ogni quattro minuti) entrano nel misterioso percorso, si ripete Oracoli. Lo spettacolo che ha ideato e diretto, con una compagnia di attori colombiani e italiani, come parte finale della trilogia “Sotto il segno del labirinto”, avviata nel suo Paese e proseguita poi a Modena con Emilia Romagna Teatro.

Ma cos’è Oracoli?

È la storia di una domanda che lo spettatore-viaggiatore si pone. Il sottotitolo infatti è: “Il suono dell’acqua dice quello che pensi”.

Questo viaggio presuppone una partecipazione “totale”, un coinvolgimento fisico ed emotivo dello spettatore, che non è più quello che entra e si siede, ma deve compiere delle azioni.

Sì, è come andare in un parco o in un bosco. È una passeggiata, basata su tre criteri: solitudine, silenzio e oscurità. Quando abbiamo iniziato a lavorare su quest’opera, avevo pensato di farla per un solo spettatore. Sedici attori per un solo spettatore. Ma il produttore prima del debutto ci ha lasciati. Abbiamo avuto molti problemi prima di arrivare a presentarla. L’idea è di fare uno spettacolo con tutti gli abitanti della terra che vadano in scena per una sola persona.

Questa persona reggerebbe a una tale emozione? Cosa cambia in un attore quando recita per un solo spettatore?

Ovviamente è una tendenza, un’utopia. Comunque, per fare uno spettacolo per una sola persona è necessaria una grande umiltà.

Nei tuoi spettacoli torna la memoria di una cultura contadina, delle cose semplici, anche nell’ultimo Memorie del vino.

Sono nato a Manizales dove si lavorava la terra. Quando ero piccolo, avevo tre anni, la sera ascoltavo di nascosto i racconti, non potevo stare al centro del circolo, quindi ascoltavo e vedevo solo le ombre sulla parete. Questa esperienza mi ha marcato. Per me è importante l’esperienza, poter sperimentare qualcosa, contro la tirannia dell’occhio. Guardare va bene, ma si deve anche odorare, il corpo deve essere presente, perché ha la sua memoria. In Oracoli il viaggiatore incontra un chicco di grano, lo macina, fa la farina e poi la impasta.

Da dove nasce questa ricerca?

Oracoli è l’ultima parte della trilogia “Sotto il segno del labirinto”, nel primo spettacolo Il filo d’Arianna il tema generale era la memoria. Ripensare a quello che è successo, la memoria primigenia, quella del corpo. Poi, lavorando su Oracoli ho scoperto che le categorie passato, presente e futuro non esistono, come non esistono i cinque sensi. Noi abbiamo un solo senso ma con tante finestre. Il senso è la presenza, con diversi sguardi: passato, presente e futuro sono un solo momento. Per avere una premonizione del futuro ho bisogno di una memoria del passato. Per sapere dove sono ho bisogno di sapere da dove vengo e quindi posso intuire dove andrò. La relazione tra memoria del passato e “memoria del futuro” allora è chiara. Quindi non è vero che prima ho lavorato sulla memoria primigenia e ora sulla premonizione, è solamente una trappola grammaticale, semantica. Il tempo ha tante sfaccettature. Con la fisica quantica, ma principalmente con la poesia, è possibile pensare ad una relazione tra tempo e spazio che non sia lineare, così fatta per il consumismo, per l’industria. Quando la gente entra in Oracoli non sa più quanto tempo è trascorso, potrebbero essere passati solo dieci minuti. E quando si tenta di ricapitolare quello che è accaduto non è chiaro cosa è stato prima e cosa dopo.

Le cose che dici alimentano la curiosità. Lo spettacolo si deve vedere.

O magari odorare.

Insomma si deve entrare. Lasciamo quindi che ciascuno faccia il proprio percorso e intanto raccontaci cosa stai facendo adesso. Vivi ancora a Madrid?

Il lavoro di ricerca sulla memoria del vino (lo spettacolo ha debuttato quest’anno, ndr) è stato fatto a Modena. Allo stesso tempo abbiamo approfondito il lavoro di Oracoli con un laboratorio di ricerca. Così, negli ultimi due anni sono stato fisso a Modena.

Oracoli  sta girando e ha toccato molte città europee. È complicato allestirlo? Qui all’Ateneo avete lavorato venti giorni prima di andare in scena.

Lo spettacolo cambia in ogni città. Perché se si lavora sulla memoria del corpo è necessario anche lavorare sulla memoria del luogo. Questa è una Università e per noi è molto importante. A Rimini, il posto era un albergo degli anni Cinquanta. Un’architettura molto aggressiva, di cemento, quadrata, tipo quelle di Franco, in Spagna. Era difficile lavorare lì. Abbiamo allora iniziato a parlare con la gente del quartiere. Mi hanno raccontato che una madame Minoshka, una contessa russa, ospitava in quell’albergo i politici dell’Adriatico. Questa però non era contessa e non era russa, ma napoletana. Ho iniziato a immaginarla con il suo mestiere in questo luogo decadente e finalmente un giorno ho pensato che potevamo fare un lavoro sulla drammaturgia della decadenza, anche perché questo è lo spirito di Rimini. Una decadenza forte che si può odorare. Abbiamo cercato la poetica della decadenza. Per me è stata una bellissima esperienza. A Londra era una vecchia stazione di autobus, in Toscana un castello del IX secolo e in Slovenia una ex fabbrica.

Quindi voi quando arrivate vi relazionate con lo spazio. Ma cosa fate, esaltate gli elementi architettonici?

Parliamo tanto con la gente. Per conoscere la storia recente. Mi piace andare nel posto e sentirlo.

Quando montate lo spettacolo in un determinato luogo, poi resta sempre lo stesso per tutte le repliche, anche qui a Roma?

Sì, anche adesso all’Università, ma è differente per ogni spettatore, perché è molto più importante quello che non vedi. Quello che vedi non è così importante.

Oscurità, silenzio e solitudine sono tre – definiamole- condizioni basilari sulle quali si regge lo spettacolo. Può accadere che qualche viaggiatore abbia paura ad entrare nel labirinto?

C’è una relazione tra curiosità e paura. Se la prima è più forte della seconda tu vai attraverso la paura e trasformi le cose. Comunque, l’idea non è creare paura, nessuno ti fa fare niente, gli abitanti sono sempre presenti. L’oscurità si utilizza semplicemente per motivare immagini. Un immaginario personale. Quando non vedi puoi odorare o toccare. In ogni caso, per me, la cosa più importante è fare un gioco.

La tua ricerca, almeno in questi ultimi anni, ruota intorno a mito, rito e gioco. Ci spieghi questa relazione?

Il gioco è l’unica, l’ultima forma di rito che noi oggi abbiamo. Un rito che non può essere giocato diventa condizionamento.

E drammaturgicamente come si risolve?

Storicamente il problema non è cos’è il teatro, ma cosa è il gioco. Chiediamoci perché giochiamo o cosa succede quando giochiamo. Interroghiamoci sul teatro come forma di gioco. Il teatro esiste ma non ha una radice se non nel gioco. Un buon gioco è una cosa molto seria. Pensa alla serietà che ha un bambino che gioca.

Forse i giovanissimi vedono il teatro come un gioco, ma per gli adulti è diverso. È difficile che entrino in una sala teatrale pensando di partecipare ad un gioco. Invece per Oracoli l’invito – in qualche modo – è proprio questo. Quindi cambiando il livello di partecipazione dello spettatore cambia anche l’idea di teatro.

Un poco credo che cambi. Una domanda interessante è: cosa è il teatro. All’inizio, per due anni, è stato difficile pensare di proporlo per uno spettatore alla volta. Era un serio problema economico.

La seconda parte della trilogia (La fiera del tempo vivo, ndr) era per duemila persone, si faceva all’aperto dentro una grande celebrazione, una festa.

Quindi il teatro è ancora un rito.

In questa forma sì. Se non posso giocare non mi interessa. È pericoloso pensare che devo farlo per rispetto alla cultura. La cultura deve essere un piacere. La serietà, il rigore deve riguardare l’estetica. È necessario un lavoro concettuale molto preciso prima, ma questo rigore non deve essere una costrizione. La spontaneità non si improvvisa. È come arrivare ad una responsabilità, ad una libertà.

Anche per gli attori cambia il modo di lavorare.

Noi parliamo di abitanti, di abitare lo spazio. Non pensiamo di dimostrare.

E lo spettatore?

Chi entra dentro uno spazio incontra un abitante, ma è libero di guardarlo, di relazionarsi con lui o di ignorarlo.

Resterai a Modena? Quali progetti hai per il futuro?

A Modena continuiamo il lavoro di ricerca e di formazione, contemporaneamente a Mostoles (a sud di Madrid) funziona la nostra scuola. Sto pensando di raccogliere in un libro la mia esperienza, partendo dall’inizio della mia memoria. Per ripensare anche a quel mio “quarto d’ora” che è stato il 1968 a New York (ha vissuto nella Grande Mela per dodici anni, quattro dei quali è stato drammaturgo al Teatro La Mama, ndr). Sono molto lento. Ci vorrà un anno e mezzo. Ho parlato con un editore a Zurigo, verrà pubblicato anche in Inghilterra. Ma credo che anche in Italia si farà qualcosa.

Quindi, ti sei trovato bene a lavorare in Italia?

Sì, Roma poi è così interessante, sia la città sia la gente. Per me era difficile pensare a una Roma che non fosse storica o simbolica. Sono aspetti molto pesanti. E invece…

A Roma c’è un equilibrio tra Nord e Sud. È la prima città del Sud o l’ultima del Nord?

 

2. IL TEATRO È UN ALAMBICCO a cura di F. Gasparini

Mi piacerebbe partire da qualche momento meno conosciuto e più lontano della sua esperienza teatrale. La scuola di teatro a Bogota, il caffè La Mama a New York. Per vedere l’evoluzione e cosa è stato trasportato di tutto ciò nelle esperienze più recenti.

La prima cosa che ho fatto è stata quarantacinque anni fa, io ne avevo quindici. Quando ho fatto la scuola di teatro a Bogota. Avevo amici in una compagnia di teatro che lavorava di notte. All’inizio ero un aiutante: al pomeriggio andavo alla scuola e alla sera stavo con loro; mi chiamavano “estudiante”, perché ero così giovane. Un giorno mancava un attore e io l’ho sostituito. Il mio interesse vero non era il teatro, ma il circo, i burattini, la strada, la celebrazione popolare, il giorno del mercato.

Quindi gli studi antropologici che ha fatto in seguito avevano questo senso?

Sì, il mio interesse era in quella direzione. E quando sono andato alla scuola di teatro ho trovato invece un’idea molto differente. Non la mia idea. Loro lavoravano su un concetto molto stretto di teatro. Il problema era che per loro questo concetto era assoluto: il teatro è così e non c’è altro.

Ha lavorato anche nel teatro classico?

Sì, con questi amici si faceva teatro classico spagnolo: Calderòn, Lope de Vega. A me in quell’epoca interessava molto la Commedia dell’Arte italiana. Dopo, infatti, negli anni sessanta, ho fatto la Commedia dell’Arte nelle strade di Harlem e il lavoro era per le strade di Harlem.

Era il Gut Theatre?

Sì, il nome del gruppo era quello. E letteralmente guts sono le trippe, gli intestini, in inglese to have guts significa… in italiano non si dice, ma in spagnolo si dice tener cojones.

“Avere le palle”, certo!

Perché era molto viscerale. Allora noi avevamo un piccolo posto per il cuchifrito: è un cibo della strada, ad Harlem, sono fritture.

Frittelle?

Sì, frittelle. Questo carretto con le frittelle era bello; si mangiava molto. Il teatro era il cibo. Dentro la nostra opera c’era questo: non so se il teatro fosse solo un pretesto per vendere cibo o viceversa il cibo fosse un pretesto per fare teatro. Ma la funzione era buona; mi piaceva perché era per strada. Al tempo noi facevamo parte del “Movimento per l’indipendenza del Portorico”, perché i bambini non potevano parlare lo spagnolo a scuola; lo spagnolo non era consentito. Il problema del Portorico era un problema nostro. In realtà il lavoro del caffè La Mama era un po’ contraddittorio con il lavoro di Harlem. In quell’epoca La Mama era un teatro di sperimentazione molto interessante, e per me era utile nella sperimentazione di cose non possibili per strada: ad esempio, là ho fatto la prima opera per odori. Mentre il teatro di strada era proprio un teatro delle origini, della festa. Ma più lavoravo sulla sperimentazione del nuovo teatro, perché era lo spirito del momento, più capivo che non c’era niente di nuovo; si pensa di fare una cosa nuovissima, ma no. Eravamo contro la tirannia della vista, dell’occhio.

Del vedere dello spettatore, vuole dire?

No, del nostro occhio. Se l’occhio domina, gli altri sensi muoiono. Questo lavoro con la festa di strada, la celebrazione tradizionale era un teatro per partecipare, per fare collettivamente. Ma se tu parli del corpo devi parlare della memoria, della memoria del corpo, perché non c’è l’uno senza l’altra. E se parli di memoria, devi parlare d’identità. Il lavoro allora era molto politico, perché il momento era politicizzato. Il problema era anche molto concreto: lavorando per strada, avevamo scontri con la polizia. Ci mandavano via. Erano altri tempi.

Il lavoro che facevate era all’interno di un movimento molto intenso di gruppi teatrali, in quegli anni in America, e fortemente politico, perché voleva incidere nella società, lottare contro certe chiusure. Pensa che non ci sia più tutto ciò nel teatro oggi?

Il teatro è sempre come un atanor, è il corno dell’alchimista.

L’alambicco?

Sì. Io ho sempre sentito l’esperienza teatrale come un alambicco (ride, ndr). Il teatro è un alambicco. Un alambicco che lavora con ciò che abbiamo al momento, lo spirito che nel momento è vivo. Il problema è come creare un’esperienza. Sì, per me, realmente, l’esperienza teatrale deve essere prima di tutto un gioco. Voglio giocare. L’esperienza teatrale come sacrificio, come cultura, come momento intellettuale non mi interessa per nulla. Ciò che conta è il juego, che può essere una cosa molto seria, molto intensa. Il problema è cosa succede in un alambicco. “Cosa succede?” è la domanda del teatro. Come trovare un gioco per entrare nell’alambicco, come trovare un piacere in questa intensità? Tre giorni fa ho visto una donna che raccontava una storia al suo bambino - ero alla stazione dei treni. Il fratello più grande gli faceva un movimento per spaventarlo. Al bambino piaceva più il gioco del fratello che la storia della mamma e chiedeva ancora e ancora al fratello di spaventarlo. Perché per questo bambino era così importante essere impaurito cinque o sei volte senza stancarsi? È stata  una lezione importante: la storia della mamma era molto lontana.

E la voce, le parole?

Anche la voce può essere un gioco. Però noi usiamo le parole per aggredire, per mentire, per manipolare; condividere con le parole non è facile (ride, ndr). Le parole si possono usare se si riesce a farle diventare più necessarie del silenzio. Ma la domanda è come creare il silenzio.

Un’esperienza, un racconto, un gioco teatrale respira sempre attraverso i suoi silenzi. Se respira è per il silenzio, che è l’unico modo di entrare. La domanda è: che alambicchi erano necessari negli anni sessanta e che alambicchi sono necessari ora? Dunque, il teatro come necessità. Io credo che la domanda non sia qual è l’origine del teatro, perché è una domanda che ti confonde, ti crea ragnatele letterarie. Il problema è cos’è il gioco e perché giochiamo. Poi possiamo pensare al teatro come a una forma di gioco. Ma la prima domanda è rivolta al gioco, non al teatro. È l’homo ludens. Perché se ci avviciniamo al teatro con la domanda sul teatro medesimo creiamo una struttura pretenziosa, molto pesante.

Ma il gioco, così come viene usato nel suo teatro, è anche un modo per allontanare lo spettatore dai ruoli sociali prestabiliti e farlo entrare in nuovi ruoli?

Il gioco è una trasformazione del simbolico. Una cosa è la trasformazione del simbolico per il processo in sé stesso, per il piacere della trasformazione, altra cosa è la trasformazione del simbolico per ottenere un prodotto, una costruzione finale da condividere. E questo si avvicina di più al problema del teatro, dell’arte. L’altro problema è la trasformazione del concreto.

Una domanda interessante è che relazione c’è tra la trasformazione del simbolico per il processo medesimo (senza pensare a cosa diventerà) e la trasformazione del simbolico per una costruzione finale e cosa c’entra questo secondo momento con la trasformazione del concreto. Se io trasformo il simbolico per produrre una costruzione da condividere, necessariamente questa costruzione finale deve essere essa stessa una trasformazione del simbolico. Se non lo è dipende dal fatto che abbiamo il problema della presenza della letteratura nel teatro e pensiamo che la letteratura teatrale sia teatro.

Questo succede quando parliamo della trasformazione del concreto nel contesto della trasformazione del simbolico: succede con un bambino che non gioca o con una società che non gioca a trasformare il simbolico e che ha solo relazione con la trasformazione del concreto. Il problema del non gioco è il problema della manipolazione. Perché nel gioco possiamo essere creatori della nostra storia e nel non gioco lavoriamo perpetuamente nella ripetizione di un meccanismo, di una struttura logico-formale che può trasformarsi in molte forme differenti, ma è sempre la stessa. In generale il problema del gioco è fondamentale perché è un processo di conoscenza.

In una società come la nostra dove non si ha più comunicazione con le proprie origini, con una tradizione vera, con un linguaggio sensibile che abbia un intimo legame con le cose e le rivesta del riverbero del nostro spirito, come si può far sentire le persone parte di un gioco che è rito di trasformazione?

Il gioco è l’ultimo rito possibile per noi. Se è possibile sognare e se è possibile sognare di dare forma visibile all’invisibile, allora è ancora possibile collegarsi (come una persona che cerca di collegare la spina della sua radio alla parete) al nostro sogno; e sempre sogniamo. E allo stesso modo il corpo sempre ricorda; ricorda il suo sogno, tiene sempre una memoria.

Dunque il rito oggi nel teatro è il gioco?

L’unico rituale possibile oggi per me è quello che è strutturato come un gioco. E il rito si dà come necessità di fisicizzare un mito, perché il rito è una fisicizzazione del mito, è una sua espressione, quando non è imposto, quando la gente partecipa non per il rispetto al rito, ma per piacere di farlo, di congiungersi. È questo chiaramente l’elemento del gioco: un’azione in cui si entra liberamente, partecipando a un’attività che ci mette in comunicazione con lo spazio, con l’universo e con noi stessi. È un piacere. Il problema è se il rituale ha perso il senso del gioco, se è diventato un’attività costrittiva. Il rito-gioco deve darsi come una necessità. Se non è così, è imposto, è fatto per rispetto, come per alcuni, non per tutti, la messa cattolica. Per altri l’andare al teatro. Come un atto sociale.

Il ruolo sociale dell’andare a teatro.

Sì, non per la necessità del gioco in sé stesso, ma per rispetto alla cultura. Questo è decadente. Perché si perde la relazione forma-contenuto, la relazione con l’esperienza viva, organica. Il rito-gioco porta una necessità. Il gioco dionisiaco, Dioniso stesso, sempre fu un rituale sovversivo, illegale, nell’antica Grecia, solo tardi i politici di Atene legalizzarono la festa dionisiaca perché era diventata una comune necessità.

In Oracoli lo spettatore entra dentro a qualcosa che lo rende attivo e in un certo senso diventa attore lui stesso. Cosa riceve lo spettatore da questo teatro rispetto al teatro comunemente inteso?

Il piacere di immaginare, di giocare. La cosa importante in Oracoli, ma anche ne La memoria del vino, è ciò che vedi e ciò che non vedi, quello che ascolti e quello che non ascolti. L’opera è stata costruita in modo che le immagini visuali, sonore, sensoriali sono pretesto per creare silenzio, per creare lo spazio vuoto. Se non hai uno spazio vuoto, il tuo spazio, dove l’immagine non è costante come in televisione, non puoi respirare, digerire, trovare te stesso. Noi abbiamo la necessità di giocare ed immaginare, di giocare la nostra vocazione. I giochi fondamentali sono arcaici, per me. E sempre i giochi fondamentali portano gli archetipi: come espressione sensibile dell’inconscio collettivo. Abbiamo necessità di giocare all’archetipo per due ragioni: una per legare l’azione creativa all’archetipo, per non renderlo letterario (Hitler ha reso il mito letterario e ha fatto quello che ha fatto).

Il mito diventa rigido e sta di fronte a noi come un incubo.

Noi dobbiamo conoscere il nostro archetipo, confrontarci e giocare con esso. Però è un gioco, non un’imposizione; l’archetipo, il mito non si può imporre. Perché il mito imposto è la pazzia. Se noi stiamo su questo pianeta è per essere i creatori della nostra storia, la nostra vocazione. In spagnolo per dire “come va, come stai?” si dice para onde lo lleva?, cioè “dove ti porta?”.

Come se tu fossi tirato, trascinato da qualcosa.

Sì. Perché noi non diventiamo creatori della nostra storia, ma oggetti di altri che pensano per noi. La soluzione a ciò non è metodologica o tecnica; è un problema di concetto: rispondere alla nostra vocazione di esseri umani che devono creare la propria storia. Ecco perché mi piace Dioniso, perché il sapere dionisiaco è un sapere sensibile, in cui cultura e naturalezza si conciliano. Il sapere della modernità è quello in cui il sapere domina la naturalezza. Il sapere dionisiaco è questo: sovvertire lo schema, il limite e cercare il “sublimite”, che è uguale al “sublime”. È  fondamentalmente il sapere del gioco.

Mi viene in mente che nel Dioniso delle Baccanti di Euripide c’è sia lo scatenamento selvaggio, sia il seguire le teletai, le regole del rito. La precisione del teatro ha una bella metafora nell’appartenere al Dioniso della trance regolata, quella che non porta mai fuori al punto tale da non sapere più nulla di sé.

Io penso che sia buono andare fuori di sé stessi se poi si è in grado di tornare. Perché se non si ritorna è la pazzia. L’incontro con l’archetipo dionisiaco comunque, per me, deve basarsi sulla libertà del gioco, non sulla letterarietà che separa il mito da noi.

I caratteri dell’oscurità e del silenzio nel suo teatro hanno dunque il valore di permettere a chi gioca di trovare una via più aperta?

Bisogna trovare l’equilibrio tra il gioco collettivo e lo spazio individuale. Una storia che non ha silenzio non respira; una buona esperienza teatrale respira per il suo silenzio. L’esperienza ludica, teatrale, è una struttura di tensione; ma il punto ottimo di risoluzione della tensione deve sempre essere un momento di respirazione personale, è un “ah-ah”.

Un accorgersi.

Ma non deve essere un ah-ah intellettuale, se capita anche intellettuale, ma non solo. Un’apertura verso me stesso. Altrimenti è come un foglio in cui tutte le parole sono attaccate. L’altra domanda essenziale, legata al silenzio, è quella sull’oscurità; perché quando parliamo di oscurità parliamo di silenzio: l’oscurità è un silenzio. La qualità del silenzio. La parola è necessaria, o possibile, solo nel momento in cui è più necessaria del silenzio.

Allora in questo teatro oscuro e silente, dello spettatore che gioca, chi è l’attore e qual è la sua tecnica?

Io credo che l’attore per salvare il teatro deve desaparecer, “sparire”. Credo che generalmente l’attore sia un nemico del teatro; dico il cattivo attore. Prima di tutto gli attori devono imparare ad abitare lo spazio. La qualità principale dell’attore è  imparare a sparire. Se io ti racconto una storia molto interessante, sono bravo solo se ti faccio rapire dai particolari della storia stessa e dimenticare di me, del narratore. Devo portare la storia a un punto in cui la presenza dell’attore non è importante, ma l’immaginario che sta sorgendo. Se tu dici “guarda che bravo questo attore a fare quella cosa o quell’altra” non va bene. Se vai via invece con l’immaginario nella tua testa…

Come dopo un sogno?

Sì, allora va bene. Il nostro problema è come sparire, come donare un immaginario. È anche un problema di umiltà, di suggerire più che di mostrare e illustrare. Come farlo? Io penso che per l’attore questa sia la contraddizione  principale. Imparare a sparire.

Allora finalmente arriviamo al nuovo progetto, La memoria del vino o I giochi di Dioniso. Qual è il legame con gli altri due momenti della trilogia, Il filo di Arianna e Oracoli; e quali le differenze?

Ne Il filo di Arianna noi lavoravamo sul Minotauro e la ricerca di Teseo. Era un incontro con un Minotauro incatenato. Nella tradizione greca il Minotauro è il nemico dell’umanità, il nemico della razionalità e, nella tradizione greca, Teseo lo uccide. Nella tradizione minoica Teseo gioca con il Minotauro un gioco pericoloso. Nella nostra prima versione Teseo si confronta con il Minotauro con terrore; in solitudine si incontra con il suo Minotauro interiore incatenato. Ne La memoria del vino il Minotauro si toglie le catene ed entriamo così a giocare con il sapere di questo Dioniso. In Oracoli lavoravamo sul chicco di grano che è terra; si parla della premonizione e della crescita. Ne La memoria del vino la drammaturgia è legata all’aria, non alla terra. La radice dell’uva è la più profonda rispetto all’altezza della pianta. Dalla sua aria dipende la sua radice. Lavorare su una drammaturgia del vino significa pensare nel rischio dell’aria, del salto nel vuoto, nella pazzia. Non la crescita organica che c’è prima. Però nelle due esperienze precedenti l’intuizione principale è la stessa che c’è ora: una critica alla tirannia della razionalità dell’occhio come servitore della razionalità.

Concretamente, al momento della costruzione dello spettacolo come lavora sulla drammaturgia insieme agli attori per creare le immagini e la struttura?

Io propongo una struttura basica, che è come dire una regola del gioco, un’indicazione per giocare. È un po’ come proporre una strada, una direzione. Noi sappiamo che la spontaneità non si improvvisa. Non sono interessato a difendere una proposta dogmaticamente; mi piace il confronto, imparare ad ascoltare le altre proposte.

E poi su questa proposta gli attori lavorano in modo collettivo o individuale?

Nessuna cosa può rimpiazzare il lavoro individuale. C’è anche il lavoro collettivo, ma il confronto individuale con se stessi è necessario.

Gli oggetti, le scene nascono all’interno di questo processo di ricerca?

Credo che tutta la creazione artistica, quando si lavora con un gruppo di persone, debba essere una creazione collettiva. È impossibile lavorare su un processo creativo senza appropriazione e trasformazione personale. Sicuramente il creatore, l’artista è una persona che ascolta, che sa che il suo prodotto è un prodotto sociale, che risponde a un momento storico e organico di cui lui è un mezzo di espressione. L’artista è un veicolo per facilitare la configurazione di una struttura; però nessuna creazione è un atto solitario, individuale. L’atto creativo per sua natura è un atto sociale. Ha un legame con la cultura.

In Oracoli c’era uno spettatore alla volta che faceva il suo viaggio, ne La Memoria del vino invece ci sono cinquanta spettatori. Come cambia il rapporto tra lo spettacolo e lo spettatore in due condizioni così diverse?

Qui il nostro lavoro è stato di giocare sull’equilibrio tra l’individuale e il collettivo. Perché qui noi lavoriamo sulla celebrazione collettiva, il carnevale. Quest’opera è fondamentalmente un carnevale: il pubblico diventa parte di un carnevale di maschere, dove la gente si mette la maschera, beve il vino, danza se vuole, ma non è necessario, è un carnevale, si può danzare oppure no. Mi dispiace molto quando in uno spettacolo sono costretto a fare qualcosa. Non è bello. Se sospetto che in un’opera sono costretto a fare qualcosa di fronte a un altro affinché l’opera funzioni, io scappo. Se mi piace lo faccio.

 

3. VERSO UNA POETICA DE LOS SENTIDOS a cura di M. Tomasi

Il tuo è stato un lungo percorso. Quando e come è nata precisamente l’idea di creare il Teatro de los Sentidos?

È semplicemente una tappa. Il mio primo gruppo fu il Teatro de los Sotanos (scantinati) nel 1955 a Bogota, poi venne l’esperienza del Gut Theater ad Harlem nel 1965, del Teatro de los Barrios Orientales (quartieri orientali)  di nuovo a Bogota nel 1973, fino ad arrivare al gruppo-taller di investigazione della poetica sensoriale all’Università Nazionale della Colombia nel 1985.

Tutte queste tappe hanno in comune la ricerca di un teatro per sentire, per celebrare, per trasformare.

Ogni evoluzione va delineando un’essenza o risponde a una domanda che in fondo è la stessa cosa. Ad ogni modo, qualsiasi essere umano che incontro attraverso lo strumento del teatro mi aiuta a vivere e a prepararmi alla mia morte.

Cos’è il Teatro de Los Sentidos?

Non so dire se sia un teatro d’avanguardia, semplicemente posso dire ciò che non è: non è teatro sociale, Teatro Ragazzi, teatro immagine, teatro letterario. Le differenze stanno nella qualità della poetica, nel fatto che essa sia onesta o meno, che annoi oppure no, che sia pretenziosa o non lo sia. Il teatro è uno solo.

La tua ricerca si è concentrata in particolar modo sul rapporto tra il rito, il mito e il gioco. Potresti spiegarci questo legame in relazione al teatro?

Sono tre momenti di un medesimo processo. Il rituale oggettiva il mito, il gioco lo rende possibile e questo è il teatro.

Hai più volte affermato che prima di chiedersi che cos’è il teatro è importante chiedersi che cos’è il gioco. Credi che quest’ultimo sostenga il primo?

Naturalmente. Il gioco non è un genere performativo all’interno del teatro e il teatro è una forma secondaria di gioco.

Quando il gioco si verbalizza c’è pericolo di ideologizzarlo, per questo il vero gioco parte dalla memoria del corpo.

Pensiamo alla relazione tra concetto e metodo: il concetto è l’essenza, mentre il metodo è la tecnica che utilizzo per arrivare all’idea essenziale. Ecco, il concetto essenziale appartiene al giocare e il teatro è semplicemente un metodo che utilizzo per giungere all’essenza di questa forma di gioco.

Esiste una forma universale del giocare. Il teatro, appoggiandosi al gioco, non può più essere soltanto visuale, deve saldare quella frattura tra corpo e mente radicata nella cultura occidentale.

Il teatro dev’essere un piacere. Quando i bambini giocano alla guerra fanno teatro perché trasformano la loro realtà, trasformano un’esperienza per comprenderla.

La psicoterapia può essere pericolosa, può utilizzare il gioco in modo sbagliato riducendosi ad una forma di manipolazione poco onesta, mentre il gioco dev’essere libero ed egualitario e soprattutto deve diventare la forma per condividere un’essenza. 

Victor Turner parla di fenomeni liminali e di fenomeni liminoidi e crede che il rito sia liminale e che il teatro sia per lo più liminoide. Condividi quest’affermazione?

Sì, sono d’accordo con questa precisazione, però il mio interesse principale è la ricerca di una poetica, preferisco allora distanziarmi dalla terminologia tecnica. Mi piace situarmi nel territorio dell’ambiguo e avvicinarmi all’esperienza liminoide dell’incertezza. In fondo è solo un problema semantico.

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