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percorso ludico

Intervista a Vania Castelfranchi (di Marianna Tommasi)

 

Come e quando nasce il tuo interesse per i giochi di ruolo?

In me non c’è stata la nascita di nessun interesse, nulla ha segnato un vero e proprio principio. Direi più che altro che sono stato fortunato o, meglio, che il tempo e le circostanze e l’esempio di mio fratello Yuri mi hanno particolarmente favorito.
Tutti i bambini e le bambine giocano di ruolo (o dovrebbero farlo!), si sbizzariscono in continue ed eclettiche esplosioni del come se, interpretando in ogni momento della loro infanzia cavalieri, agenti segreti, dame spadaccine, pirati, animali misteriosi.
Io avevo una violenta passione per questi giochi fantastici di immedesimazione e di trasformazione del reale, li vivevo con intensità estrema e grande serietà, accompagnato da un importante amico reale, Pierpaolo, e da miliardi di comparse immaginarie che mi ruotavano nella mente.

La grande capacità di mantenere il limite, di uscire e rientrare nel gioco con celerità e impegno mi portava però ad una sensazione straniante: entravo e uscivo dal mondo del come se, ma quell’universo parallelo seguitava ad esistere, non si fermava! Così, anche mentre non giocavo, il mio pensiero tornava spesso a quei personaggi, alle situazioni vissute e a come si stessero evolvendo, mentre io non ero là.

Il come se si arricchiva dunque di un lato oscuro un poco pirandelliano ed angoscioso che neppure io riuscivo a gestire pienamente: le storie montavano, si muovevano, a volte complottavano e il mondo fantastico costruiva trame, saghe, epopee.

Da adulto, giocando spesso con bambini di varie età e culture, mi accorgo che questo fenomeno (che allora a me pareva affascinante e unico) non è così raro, ma che effettivamente modifica il pensiero del gioco, gli dona ancora più significato ed importanza. Il giocatore non è più un dio in grado di modificare l’universo e strutturarlo come un suo puzzle, è una pedina, vive le sue avventure esaltanti e stupefacenti, ma è anch’egli una comparsa che appare e scompare da quelle terre.

Il passaggio che il mio pensiero aveva compiuto (spiegherò in seguito quali ragionamenti mi ha portato a fare sul teatro) mi poneva di fronte a un bivio spaventoso: occuparmi di più della mia vita reale, della scuola, del mio cane, delle mie letture o divenire un personaggio più importante e presente nel mondo del come se?
Questo interrogativo, presente nell’infanzia di ciascuno, era per me ingestibile, disarmante, poichè il gioco rappresentava un mondo molto più vasto del reale: nel fantastico le terre da visitare erano maggiori, gli amici erano molteplici, le mie potenzialità eroiche superiori e oltretutto le emozioni che provavo giocando erano esplosive, più forti rispetto a quelle del mio piano affettivo reale.
La scelta la presero in realtà gli eventi e, come ho accennato prima, mio fratello decise il mio incontro con il gioco di ruolo. Per non dilungarmi racconterò brevemente i due fatti ai quali mi riferisco, sperando di aver suggerito già ampiamente il potere (respingente ed ammaliante, come tutti i poteri) di quel come se.

Avevo, credo, 10 anni. In un gioco d’avventure, condotto con il mio amico Pierpaolo e con una banda di ragazzini che vivevano nella mia strada (in un’isolata periferia romana), mi arrampicai su un albero di mele che stava nel giardino incolto di una casa abbandonata.
Afferrai un piccolo frutto selvatico, raggrinzito e ammaccato, tesoro della nostra avventura. Il mio personaggio esultò, eroe epico di un mondo agitato da chissà quali guerre, lasciò la presa ed io precipitai.
L’orrore di quella caduta, che mi fece svenire e accrebbe enormemente la mia paura del vuoto e il mio senso di vertigine, inchiodò ogni mia scelta.

Il pensiero fu banale nella sua logica matematica e pericoloso: se mentre vivevo nel come se il mio corpo reale incarnava quelle avventure, le mimava, ne ricreava i suoni e le dinamiche, tutte le volte che i miei personaggi si sarebbero trovati dinanzi alla morte anche io, il Vania reale, rischiavo di morire!

I sogni interagiscono sul reale. Mi balenò quel pensiero che avrebbe mosso le righe delle sceneggiature di Wes Craven per Nightmare, che aveva già animato grandi scrittori del noir e della letteratura horror, un incubo molto presente nell’uomo, un archetipo di orrori antichi e di sopravvivenza. Io non volevo morire.
Mi ritrassi dal mondo fantastico, fuggii, me ne staccai con violenza estrema e frequentai per un po’ di tempo giochi che non mi coinvolgessero troppo, ove i personaggi restassero il più possibile incastrati in oggetti estranei da me: pupazzetti, lego e disegni.

In quel momento pericoloso (mi sarei potuto perdere per sempre e abbandonare il vero e profondo come se) mio fratello maggiore,Yuri (aveva 14 anni), arrivò con un role-playing-game: Dungeons & Dragons. La scatola rossa di quel gioco prometteva i miei mondi fantastici, la mia eroicità limitata ad una comparsa in un universo enorme, popolato di grandi nemici, di potentissimi draghi, di incomprensibili enigmi e contemporaneamente preservava la mia vita, poichè l’immedesimazione non sarebbe passata attraverso il mio corpo: avrei cavalcato il fantastico seduto su comode regole, armato di un dado e protetto da parole, carta e matita.

Abbracciai i giochi di ruolo con una voglia spasmodica, quasi in crisi di astinenza per il lungo periodo trascorso distante dal come se e nacque il mio “salvavita”: il chierico guerriero Harlog.
I giochi di ruolo, per chiunque, non credo siano un incontro, ma un ritorno a schemi e voglie di gioco abbandonati.
Grazie alla loro struttura permettono all’adulto di avere delle garanzie, gli formano attorno quei corrimano e quelle barriere di emergenza (gioco serio e capacità di entrata e uscita continui) che i bambini sanno gestire così bene e ai quali gli adulti rinunciano e si disabituano.

Fui fortunato ad incontrare Dungeons & Dragons in quel momento di grande bisogno e di deriva nel reale.

Giocare di ruolo ti ha portato in qualche modo anche alla passione per il teatro?

È stato un battello, un ponte continuo che da quella caduta d’ infanzia mi ha trasportato sino al teatro. Infatti la paura di quel salto nel vuoto mi è rimasta incollata addosso, si è infiltrata nelle mie ossa e fino ad ora non sono riuscito a stanarla, paura di morire, sì, ma anche molto altro.
Da quel momento il come se è restato limitato nei giochi di ruolo e non è vissuto in nient’altro, scalciando in passioni per il cinema, per la lettura e i fumetti.
Il gioco di ruolo, dovendo sopportarmi per così tanti anni e subendo una pressione di grandi energie che desideravano potenziare le mie avventure e il mondo fantastico, è mutato.
È nata da ciò l’esigenza di sperimentare e di creare role-playing-game nuovi, sino ad arrivare a Elish.
Dai 10 anni in poi ho continuato a giocare il come se senza mai abbandonarlo, attraverso mille giochi di ruolo.
A 19 anni, per puro caso, ho incontrato la possibilità di lavorare in un teatrino romano. Un regista di nome Marco Carniti stava mettendo in scena un’opera contemporanea, Dutchman, sul rapporto tra una donna bianca e un uomo di colore, nella quale  si confondevano sensualità, morbosità e preconcetto razziale. Il regista stava costruendo la messa in scena in una logica cyberpunk, futuribile. Io ero un appassionato ed esperto della  letteratura e del cinema di genere, quindi chiesero il mio appoggio per avere suggerimenti e idee su oggetti, scene e dinamiche.

Banalmente, nell’essere presente a quel lavoro, nel vedere gli attori esercitarsi, i costumi e i trucchi trasformare i corpi, le scene e le luci mutare lo spazio, assaporai per la prima volta il gusto del gesto teatrale e anche qui ritrovai cose che avevo perduto. Nel travaso del come se dal gioco fisico infantile al gioco di parola dei giochi di ruolo, molto si era perduto ed ora lo ritrovavo nel teatro.

Credo dunque che il giocare di ruolo mi abbia permesso di ricordare, abbia semplicemente tenuto sveglio il mio senso del come se, vivificando quotidianamente la spinta al sogno. Quando ho ritrovato quei sapori li ho riconosciuti immediatamente, mi erano prossimi ed erano rimasti solitari compagni e satelliti del mio crescere, per tanti anni invisibili ma presenti.
Credo che l’abbandono del come se, in Italia molto favorito da una cultura scolastica ed educativa avversa al gioco o denigrante, porti un intorpidimento di quegli aspetti d’improvvisazione e di creatività tanto raccontati da registi e studiosi di teatro. Le abilità si freddano, si addormentano e, anestetizzate dal tempo, si abbandonano, cadono dalla vita e dal corpo come pelle morta.
È una delle grandi battaglie contro l’oppressione di cui parla Vargas, una violenza che ci viene portata dall’esterno ma che massimamente si intrufola in noi, ci trova come primi e quotidiani sostenitori, rendendonci impacciati, legandoci e immobilizzando il nostro emisfero fantastico.

Sono stato fortunato poichè ho fatto palestra continuamente con il gioco di ruolo, trovando sempre gruppi con i quali giocare e quando sono approdato nel dietro le quinte di quel teatrino romano ero pronto a riconoscere quei gusti.

Come nasce Elish?

Non desidero dilungarmi molto su Elish. Credo che parlare di un gioco di ruolo sia come il raccontare uno spettacolo o un film: la dissezione di un cadavere, l’impagliamento di un animale. Si può descrivere ogni setola del pelo, ogni organo interno, persino l’emozione che donava il movimento della sua coda, ma l’anatomia di un corpo non è il corpo e non ne riproduce la complessità.

Sono un grande sostenitore delle teorie artaudiane e non posso fare a meno di provare un senso di nausea nelle sintesi di sistemi complessi e rizomatici (da Rizoma di Deleuze e Guattari) come quelli che stanno dietro le strutture di una regia teatrale o una partita di gioco di ruolo.
Per molti sembrerà un modo di esagerare l’importanza dei giochi di ruolo donandogli un valore ingigantito e questo perchè il mercato del gioco italiano ha svilito i giochi di ruolo (dietro la solita, noiosa e antica logica del soldo) in opuscoli di vendita continua, moduli, manuali, miniature, gadgets vari. No. I giochi di ruolo sono molto di più e dovrebbero godere non solo di maggiore fama ma di un superiore sviluppo ed occhio critico.
In Italia vi sono pochi sperimentatori del gioco, pochi studiosi e rarissimi scritti interessanti.
Elish nasce quindi come una scommessa, una sorta di urlo per dare uno scossone ad un ambiente un po’ lento e ristagnante.

Il mercato, incarnando perfettamente una delle molteplici braccia del kraken, Potere/Violenza/Oppressione, generando dinamiche sempre meno rituali nel senso dionisiaco e sempre più protese verso riti apollinei, abitudinari, restauratori, ha ben presto irretito il role-playing game in una logica di dipendenza e non di creazione.

Come in una lettura perversa del metodo di Moreno, invece di stimolare il “lato sano” per generare nuovi strumenti fantastici e dare l’opportunità di crearsi da soli gli specchi, gli oggetti di cura e di rifrazione di sé stessi, il senso è stato invertito, il gioco di ruolo ha ribaltato la carta del re e si è trasformato nel “matto-mercante”.
Il giocatore non è più un demiurgo, può creare solo entro i limiti posti dal manuale, così, sull’onda violenta delle energie creative, chiede continuamente nuovi scritti, avventure precotte, regole ampliate ed espansioni.  Non parlo di un gioco senza regole, parlo di un sistema ludico pervertito, ove le regole sono create non a salvaguardia delle dinamiche interne e dello spazio/tempo del gioco, ma solo per vendere di più, per essere poi migliorate o ampliate.
Sta succedendo ai giochi di ruolo quanto avviene ai computer che prevedono nella loro natura l’acquisto di sempre nuovi prodotti per essere utilizzati nel tempo, altrimenti il loro progresso è bloccato da programmi inutilizzabili perché destabilizzati da limiti di mercato.

«Al Principio vi era il drago» riporta la copertina del primo manuale di Dungeons & Dragons. Quando il pubblico è aumentato, si è gonfiato come una marea pronta a liberarsi, una mossa saggia sarebbe stata quella di dare il via a tutti, di comunicare: “andate avanti voi, inventate le innovazioni del nostro gioco, questo è solo uno spunto!”, ma il mercato ha intrapreso la logica inversa al gioco e si è trasformato da ludens in “eliminatore”.

È iniziato così il lungo e infinito monologo dei venditori e il Drago è divenuto anche Gargoyle (espansione expert di Dungeons & Dragons), poi Beholder e via discorrendo secondo altre varianti.

Oggi, ogni gioco di ruolo possiede non meno di 50 espansioni di ogni tipo (regolamentari, di scenario, di ambientazione) ad alimentare il giro di soldi del mercato del role-playing game.

Elish desiderava infrangere l’onda e, nel suo piccolo o minuscolo, vi riuscì. I grandi del gioco di ruolo in Italia, coloro che ne studiavano e ne parlavano già da tempo come Luca Giuliano, PierMaria Marazziti, Andrea Angiolino, Beniamino Sidoti (solo per citarne alcuni, quelli con cui abbiamo avuto maggiore contatto), si voltarono e osservarono con il sopracciglio sollevato, un po’ indispettiti e molto interessati, questa minuscola entità.

Elish era semplicemente un’autoproduzione, infinitesimale nel mercato complesso del gioco di ruolo, un libro che racchiudeva un modo di giocare già esistente in Italia, ma di cui si parlava e si scriveva poco. Il regolamento dichiarava: «noi pubblicheremo pochissimo, non faremo espansioni o altro! Dunque appropriati di queste pagine e inventa, sperimenta, sentiti libero di creare!».
Non si trattò di una vera e propria innovazione o rivoluzione, ma non c’era mai stato un gesto così visibile, politico, dichiarato e praticato in maniera tanto diretta.
Mille partite spinsero il gioco a vasta fama, ad una seconda edizione corretta, alla vendita di oltre 1200 copie, all’uscita del secondo volume, ma tutti i materiali pubblicati da Elish sono sempre stati legati alla voglia di indipendenza.
Non esiste alcuna vera sottomissione tra gli autori e i giocatori, ogni giocatore di Elish ne crea razze nuove e nuove terre, ne diventa autore!

Si ridonava così autorevolezza e potere d’indipendenza ai fruitori. Il giocatore riprendeva in mano le redini di una “direzione artistica” del proprio mondo immaginario.

Elish concepiva un’evoluzione del mondo settario dei giochi. Il mercato (sempre lui, maledetto!) aveva abituato i giocatori ad essere non semplici appassionati, ma conoscitori profondi di manuali, libri, campi del fantastico.

Nasceva la fantomatica figura del Nerd (ricordate il film), lo sfigato nella vita che si getta sull’immaginario (con dipendenza) dei fumetti, dei giochi o degli hobbies e lì trova il suo riscatto e la sua felicità, ma in lui non nasce nulla di sano, non c’è cura dei propri malesseri, c’è al contrario il divertissement, il gioco come passatempo e distrazione dal reale.

Il Potere, come spesso racconta Dario Fo nei suoi scritti, adora quella forma di scherzo molto apollineo, legato alla facezia, all’intrattenimento (più o meno culturale), che per l’appunto distoglie per un po’ di tempo dai problemi e fa pensare gioiosamente. Una pausa. Il profondo come se non ha alcun senso di pausa, è piuttosto definibile come un diverso respiro sul reale e tutta la gioia che si può provare nel viverlo è data da un gusto di conoscenza, da un rito di formazione e di socializzazione. Felicità non di distrarsi, anzi di concentrarsi e formare nuovi legami con i tanti sé stesso e con l’esterno.

Elish dunque dichiarava che le porte erano spalancate, che il gioco di ruolo era vasto, aperto a tutti e la pratica ci diede ragione (come aveva amato sperimentare Moreno). Portammo improvvisati tavoli di gioco di ruolo spontaneo e immediato nei giardini pubblici, nelle scuole, rivolgendoci a persone di ogni età, anche nelle metropolitane. Tutti giocavano. Questo era ed è Elish.

Quando avete costituito il Gruppo Teatrale Ygramul? Seguite qualche teoria teatrale novecentesca in particolare? Cosa fate? Quali sono i vostri obiettivi?

Il Gruppo Integrato di Ricerca e di Teatro Patafisico Ygramul LeMilleMolte nasce e prosegue il suo percorso in maniera disordinata, confusa e complessa.

Ygramul LeMilleMolte è una citazione dalla splendida opera di Michael Ende, La Storia Infinita:

«quell’orribile creatura non era un unico corpo compatto, ma una inimmaginabile quantità di minuscoli insetti di un azzurro acciaio, che ronzavano come calabroni infuriati e in sciami foltissimi si raggruppavano fino ad assumere di volta in volta le forme più disparate».

Siamo dunque uno sciame, indefinito ed interminabile, di presenze più o meno teatrali (scenografi, disegnatori, attori di ogni genere, musicisti, scrittori) condotti dalla mia incerta regia, ancora molto spaesati e alla ricerca.
Il gruppo nasce attraverso le esperienze dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico a Roma, ma da lì, circa sei anni fa, si sviluppa e si arricchisce di nuove sfumature ed energie.

L’idea di base, assolutamente non originale ma comunque sperimentale, era quella di formare un reale punto di incontro (attraverso seminari, laboratori e spettacoli) dove molte personalità differenti potessero barattare i loro strumenti. Questo spazio/tempo di prove/scambio poteva generare idee di linguaggio o semplici riflessioni, atti performativi-spettacolari o improvvisazioni fini a sé stesse, ma il tutto sarebbe rientrato in una semplice dinamica di rapporti momentanei, di crescite personali e di riflessione. Quindi non c’è mai stato un vero gruppo definito o formalizzato. Non esiste nessun documento legale, nessun “deposito S.I.A.E.”. Esistiamo perchè agiamo! Ma l’idea dell’unione e del dialogo, dello scambio interno tra menti e corpi estremamente diversi, aveva nella sua radice l’ideale di un gruppo, di una comunione lavorativa ove si confondessero i ruoli predefiniti e si riscrivessero assieme le regole. Logicamente, per un semplice rapporto di equilibrio politico o di coerenza (anche se questa parola non mi piace, preferirei dire di concretezza), quello che pensavamo sul nostro lavoro interno aveva riflessi importanti nelle ripercussioni esterne del gruppo. Se nel seme era rimessa in gioco l’idea dell’autorevolezza del testo (magari scortata da chi proveniva da un’esperienza accademica e fortemente disarcionata dai teatranti di strada), nel primo ramo che germogliava in superficie si mostravano collages di testi, riscritture, drammaturgie originali, fusioni testuali.

Lavorando su Ubu Roi apparvero testi di Apollinaire, interviste agli attori, citazioni da Borges. Il testo de I Cenci di Antonin Artaud si fuse con i pensieri dello stesso autore in Il Suicidato della Società. Don Chisciotte venne riscritto e rimontato con contaminazioni dal francese, tedesco, inglese e italiano e con intermezzi del fumettista Andrea Pazienza o del poeta Radnoti.
Se nelle prove l’impostazione di uno schema scenografico d’impianto classico (per provenienza dall’Accademia di Belle Arti) dialogava con le scelte di un appassionato di cinema, all’esterno comparivano citazioni e sporcature di linguaggio: ne La Tempesta i piani d’azione citavano Pasolini e Greenway e saltavano da un linguaggio all’altro, ne Il Giardino dei Bambini Morti di Mafia s’inseriva il Cunto siciliano di Mimmo Cuticchio e le melodie dei Sepultura.
Se le indicazioni di regia seguivano un metodo cechoviano, poteva accadere che gli attori proponessero tecniche di clownerie o costruzioni coreografiche di Isadora Duncan.
Nello spettacolo Ongossu sono molte e diverse le direzioni “attorali” che, seppur legandosi al teatro di parola, hanno provenienze molto diverse e anche contrastanti.

Quindi i lavori che il pubblico ha scorto in questi anni, fuoriusciti dal magma di Ygramul, sono estremamente disomogenei, schizofrenici.
Si ritrovano, mettendoli bene a paragone ed esaminandoli, diversi punti in comune che probabilmente stanno lentamente delineando una strada, forse persino una poetica, ma c’è ancora molto lavoro da fare.

Essendo però la radice una pubblica piazza, un alveare di mille razze d’insetti che volevano osservarsi, non vi sono metodi fino ad ora prediletti, semplicemente vi sono metodi più volte seguiti, suggerimenti da Cechov, Stanislavskij, Mejerchol’d, Grotowskij, Costa, Beck, Barba, Artaud, Moreno, Brook, Deleuze, Guattari e Castaneda.
Sarebbe inutile citare tutte le spezie di una cucina che mira a divenire sempre più opulenta e meno mancante, è importante gustarne i prodotti e rendersi conto della grande alchimia avvenuta a quei fornelli.

Sino ad ora Ygramul è sopravvissuto, ronzando e sciamando in molti luoghi romani e in qualche località italiana, ma l’idea che alimenta questa creatura complessa ha fornito il reale carburante. Per quanto il pubblico sia notevolmente aumentato e si sia creata una certa attenzione, le nostre messe in scena hanno ancora un’eccessiva sfumatura di incompiuto e di laboratoriale che il tempo ci permetterà forse di sanare.
Seguitando ad esaminarne l’anatomia interna che ha automaticamente gettato le sue membra all’esterno, Ygramul proponeva uno studio dell’incontro (nel suo concetto ampio ed anche oscuro), un incontro con il sé, con l’estraneo, con il diverso, con il testo, con il gesto.

All’esterno, questo ha permesso la costruzione di molti laboratori ed esperienze teatrali che tuttora proseguono, con realtà che vibrano nel loro potere di diversità, emanando verso il  gruppo quelle ondate di “disagio” che sono divenute ben presto essenziali.
Siamo passati dallo studio di molti tipi di teatro (classico, di strada, di figura, clownerie) al lavoro con corpi disabili, con fisicità dotate di diverse abilità o in stadio di malattia, dall’incontro con menti differenti (nel disagio psichico per malattia, per handicap, per traumi ricevuti) al tentativo di costruzione di un linguaggio e di condivisione con culture e problematiche molto divergenti (dei campi profughi, dei rom, dei barboni cittadini).

Ogni esperienza di Ygramul sino ad ora è stata un capitolo a se stante di qualche cosa che si sta scrivendo e che un giorno forse sarò in grado di rileggere realmente, ma per ora mi limito a reagire al grande potenziale che trovo attivarsi in questa “piazza medievale, ove alchimisti, cavalieri, mercanti, giullari, furfanti e prostitute si incontrano per danzare una notte”.

Sono cosciente non del dove arrivare, ma del come farlo, so con certezza che il gesto teatrale possiede un grande potere, ha una profonda e seria responsabilità (come il giocare) e mi assumo ogni volta l’onere di gettarne gli effetti e i significati nel reale.  So che uno dei punti salienti del nostro “baratto” è la verità di un momento di scambio e d’incontro e dunque la presenza di un continuo rischio e di un disagio.

Il confronto e scambio si conduce con materiali diversi, non quotidiani, inaspettati e inusuali (oggetti di scarto, immondizia, alimenti scaduti, ciò che viene considerato inutile, marcio o semplicemente degradante perchè sporco, abbandonato e polveroso), dunque anche con luoghi o persone invisibili o cancellati.

Con ciò che si dimentica.

Questo dà alle azioni di Ygramul un impeto politico, una voglia di intervento, di allarme, difesa e di messaggio, per quel diritto molto gandhiano e strettamente legato alla lotta non-violenta (che mi è più vicina) della difesa/attenzione alle minoranze.

Non è un gesto democratico, partitico, è più che altro un’esigenza a sottolineare tutti gli angoli d’incontro, gli scarti, i rimasugli di culture, perché lì il gesto teatrale trova vera vita, si alimenta ed ispira. Si tratta più di una politica anarchica (intesa nel suo senso artaudiano di urlo, di lotta per un proprio fratello che è però anche il proprio “cibo”) dove ogni spettacolo mostra anche il disagio che lo ha prodotto, l’ansia e l’incontro con l’ignoto che ne ha scatenato rabbie, paure, dolori, gioie.
Nel nostro affrontare le molte realtà non abbiamo alcun intento pedagogico preciso, nessun fine terapeutico. Usiamo il semplice strumento del teatro per incontrarci e muovere insieme dei pensieri, dei ragionamenti che si poggiano su una sensazione di disagio e di estraneità ma che, proprio attraverso le dinamiche del gioco teatrale, presto portano a soluzioni innovative, inattese.

Porto un esempio dalla semplicità imbarazzante, forse scontata, ma che a me ha donato sempre nuove riflessioni ed energie: prendendo pedissequamente un gioco teatrale proposto da Orazio Costa, anche un semplice meccanismo di riscaldamento e lavorandolo con un ragazzo “normodotato” e un ragazzo “autistico” (anche in una semplice logica di animazione teatrale o di ancor più avvilente baby parking), bè, quell’idea scritta da un maestro del teatro muta, si modifica. Questo non perché sia stata creata erroneamente, ma perchè noi diamo per scontato che essa contenga nozioni spaziali e temporali (come se queste fossero uguali per tutti), mentre le microsfumature visibili tra due attori sono potenziate enormemente dall’utilizzo e dalla reinvenzione di quel gioco che viene proposta da una mente estremamente differente.

Emanuele, uno dei ragazzi con i quali ho lavorato spesso, aveva una protezione fisica elevatissima, una barriera inoltrepassabile che esplodeva nella fantastica gioia di una risata dirompente, voluminosa, quasi isterica.
Il corpo, trattenuto e sempre statico, si contraeva accompagnato da scrosci di risate se veniva toccato (da chiunque e in qualunque punto), ma se Emanuele compiva un esercizio molto tecnico, un movimento prestabilito e matematico, il suo corpo poteva essere toccato liberamente perchè la sua attenzione era concentrata sul gestire il movimento e le difese calavano.

Questo mi apriva la mente a una grande possibilità di azioni teatrali, spesso confuse e nascoste in un attore e qui visibili come un muscolo spellato. Avevo l’acquario cristallino ove il teatro mostrava la presenza dello sguardo sul corpo, dell’attenzione e dell’incapacità di gestione, del controllo e della distanza. Trovare ciò genuinamente con un corpo/mente “normale” sarebbe stato difficilissimo, mentre Emanuele mostrava questa enorme ricchezza e contemporaneamente, attraverso un gioco teatrale, stava intuendo quando e come gestirla a suo piacimento.
Come molti grandi studiosi hanno già espresso (ed io con questo esempio non gli faccio sicuramente onore) ecco una forma dove il teatro oltrepassa le barriere del metodo terapeutico senza porsi assolutamente queste finalità.

Per concludere questa sconclusionata risposta, molto simile ad un atteggiamento eclettico e spasmodico di Ygramul, dirò che ognuno dei passaggi narrati (e sono solo alcune delle sfaccettature dello sciame) implica anche il rapporto con il pubblico e con lo spazio.

Ogni andata in scena di Ygramul rappresenta un incontro, con spettatori diversi e luoghi diversi. Dunque il lavoro muta, il disagio si rinnova e si vivifica, trovando nuove formule di contatto e di comunicazione. Gli spettatori vengono anch’essi a trovarsi immersi in luoghi disagevoli o imprevisti (luoghi abbandonati, strutture pericolose, materiali sporchi) e l’esperienza dell’andata in scena porta ancora una volta due o più diversità ad incontrarsi.

Sul sito www.gordo.it nel 2002 il regista e drammaturgo romano Marco Andreoli ci ha intervistati. Da quel lungo dialogo è venuta alla luce con chiarezza un’immagine di cui prima non eravamo pienamente coscienti: non solo ogni spettacolo di Ygramul, ogni laboratorio è molto differente, ma ogni replica della stessa messa in scena è particolare. Lo spettatore deve vederci più di una volta!

Per vostra fortuna i nostri tempi di azione sono molto rallentati e per ora il Gruppo Integrato di Ricerca e di Teatro Patafisico Ygramul LeMilleMolte costruisce un suo spettacolo all’anno, porta avanti quattro laboratori annuali che si concludono in “aperture al pubblico” e intanto segue invisibile il suo percorso di ricerca e di studio.

GRUPPO = perché, per sua natura, segue una logica cooperativa, di dialogo e non potrebbe che esistere come organismo di almeno quattro personalità differenti.

INTEGRATO = perchè tende a costruire l’integrazione con diversità (culturali, fisiche, mentali, sociali).

DI RICERCA = perchè opera o almeno tenta di lavorare nella ricerca di nuovi linguaggi o strutture teatrali (cosa così dificile e faticosa in Italia), ma anche perchè muove i suoi passi in molte direzioni differenti, collaborando alla produzione di riviste, di CD, di fumetti, di video.

E DI TEATRO = penso di aver parlato abbastanza di questo.

PATAFISICO = collega il nostro modus operandi al grande pensiero dell’autore Alfred Jarry (inventore della “maschera” dell’Ubu), alla “scienza delle soluzioni immaginarie” (alla quale presero parte Calvino, Borges, Eco e che si riallaccia al movimento dadaista e al surrealismo).

Ygramul LeMilleMolte = la creatura già descritta, che con i suoi ragni, cavallette, mosche, calabroni, scorpioni dona l’idea dell’immensa varietà di abilità fisiche e mentali che possono collaborare ad una medesima azione teatrale e di come questo gesto (per essere visibile) debba essere formato da un insieme, da un organismo plurimo e compatto, da un gruppo (tutto torna!), ma contemporaneamente di come una realtà teatrale (come quella formata da Ygramul) nasconda l’orrore di tante raccapriccianti figure che stanno nascoste e collaborano (anche il pubblico deve sentire il disagio di questo confronto e ragionare sulle proprie responsabilità).

La tua esperienza viaggia a metà tra il gioco di ruolo e il teatro. Se dovessi illustrare il rapporto che intercorre tra queste due realtà cosa diresti?

Questa domanda è molto difficile, perchè mi porta sempre a ragionare su delle scelte fatte come se fossero state prese da me in modo cosciente e ben motivato.

No, credo che il mio atteggiamento nei confronti del gioco di ruolo sia stato e sia tuttora di semplice necessità. Non credo di aver realmente generato dinamiche innovative o sperimentali nel campo del role playing game, credo piuttosto (come già mi sono espresso per Elish genericamente) di avergli dato maggiore visibilità rispetto ad altri che avevano già compiuto i miei passi. Questo semplicemente perchè molte delle ricerche fatte sui giochi (non solo in Italia) sono state poi filtrate dal mercato (questo fantomatico nemico) che le ha ritradotte in nuovi regolamenti o in diversi sistemi e ambientazioni, pervertendone la potenzialità. Il tutto quindi è passato in sordina rientrando nel binario del comprabile e del vendibile.
Quando io, nel masterizzare una partita, mi trovavo ad inventare una situazione o una nuova dinamica di gioco (che non tradisse le regole ma le esaltasse trovandone una variazione) il gruppo di giocatori rimaneva stupefatto perchè la variante non era stata scritta da nessuna parte, non era prevista! Ma questo atteggiamento non esalta il mio movimento creativo, semplicemente denuncia una forma mentis scavata negli animi dei giocatori dal cattivo gioco, da un’educazione ludica mercificata e di banale antagonismo specialistico.
Nessuno sapeva realmente stupirsi con il proprio essere ludens e quindi consideravano le mie piroette dei gesti rivoluzionari.
In realtà è come se un ballerino si trovasse a vivere in uno stato dove alla gente, per via di un regime fascista e dittatoriale, siano stati imposti solamente movimenti di danza con le braccia. È già scritto nel suo corpo e nelle regole dettate dal movimento anatomico che egli in scena potrebbe saltare, “caprioleggiare”, correre e divertire il pubblico con le gambe ed è assurdo che questo venga scambiato per invenzione e creatività! È segno di disabitudine, di intorpidimento del mondo ludico e di un malessere che andrebbe curato nell’andamento del mercato del gioco.

L’improvvisazione teatrale è uno degli strumenti di utilizzo nel narrare e costruire storie di gioco nei role-playing games, questo non dovrebbe meravigliare nessuno, ma poichè nessun editore ha mai scritto nei manuali “improvvisate”, allora molti si meravigliano che ciò possa avvenire. È estremamente triste. Per fortuna gruppi di studio come Imago o la Federazione Ludica Romana smuovono il campo da simili abberrazioni e riescono a ricucire le domande e le curiosità di vivo interesse nel mondo ludico.

Io credo di essere un discreto narratore di giochi di ruolo e in particolar modo di Elish e utilizzo ogni mezzo che sento utile per raggiungere all’interno del gioco gli obiettivi che mi sono posto, dunque non trovo nulla di stravagante se, desiderando far rabbrividire i giocatori in una partita “orrorifica”, spengo le luci e continuo a giocare al buio, se volendo rendere al meglio la formulazione di un incantesimo alchemico da parte di un mago getto sul tavolino polverine, alambicchi e pozioni, se nel descrivere un luogo sfrutto musiche, diapositive, odori, trucchi.
Sono infiniti i prestiti che si possono chiedere alle molte arti (compreso il teatro) per generare storie e giocarle e questo i bambini nei loro come se lo sanno alla perfezione (non facendo alcuna distinzione specialistica o di genere tra pittura, scultura, letteratura, teatro, gioco, musica).

Credo fermamente che il gioco di ruolo sia molto giovane e che debba compiere ancora molta strada facendo crescere le proprie modalità ludiche ma soprattutto la cultura di gioco in Italia e sono convinto che più sarà forte la spinta di sperimentazione, mia e di molti altri, minore sarà il tempo di attesa dell cambiamento di un tipo di pubblico giocante pronto a mettersi in discussione, a mettersi realmente “in gioco”, a porsi al centro della creazione (del cerchio, come ama dire Vargas) e divenire protagonista dell’evento creativo, senza continuare a subirlo dal mercato che ha ed avrà sempre bisogno di vendersi.
Inoltre, credo che la maturità del gioco di ruolo potrebbe cominciare a suggerire delle interessanti innovazioni alle altre arti, generando nuovi modelli dello scrivere e del recitare, nuove metodologie di narrazione e tecniche di immedesimazione, mentre fino ad oggi le subisce passivamente.

Il mio sguardo rimane molto attento e seguita a ricercare esattamente in questo senso ed il mio scandagliare i territori del gioco attraverso tecniche del teatro serve a snidarne le peculiarità e a formare nuovi metodi e nuovi sistemi, per arricchire come sempre le possibilità d’incontro.

Ogni momento di stupore da parte dei giocatori è per me un buon motivo di analisi e di ragionamento perchè rivela un errore, un blocco, un luogo inatteso e da poco riportato alla luce.

Forse qui potrebbe nidificare un reale senso del gioco di ruolo in termini terapeutici, lì dove il narratore (senza avere reali finalità di cura) seguisse percorsi di gioco innovativi, portando i partecipanti a dialogare tra loro, a ricreare un loro sistema di gioco, ad allearsi e attivarsi profondamente di fronte al disagio (questo termine mi è ormai caro) di una situazione ignota.

La Scienza delle Comunicazioni, soprattutto negli ultimi anni, ci ha mostrato il fiorire continuo di nuovi linguaggi (basti osservare l’eruzione di internet e degli ipertesti), bè, io credo che l’anima del gioco di ruolo, nella sua profonda funzione ludica intravista e sfruttata da Moreno per lo psicodramma, ci rivelerà presto delle sorprese. Sono in attesa e cerco.

Nulla va mai abbandonato, neppure i vecchi meccanismi o le dinamiche errate. Credo che ogni sistema di gioco di role-playing game possa contenere grandi ricchezze, bisogna darsi da fare per formare delle menti attive, devono nascere giocatori che siano ricercatori, che disarticolino ogni gioco di ruolo e lo rinnovino senza attendere dall’esterno stimoli o permessi. Ormai il materiale, anche qui in Italia, è moltissimo (io conosco almeno una cinquantina di giochi di ruolo, ma ne esistono dieci volte tanto), è giunto il momento di non comprare più altro e di  assaltare tutti quei battelli.

Mi sento come ad un porto gonfio di velieri con le stive stracolme di ori e preziosi, migliaia  di “famigliole borghesotte e intellettualoidi” si aggirano sui ponti e compiono viaggi iperbolici per tornare sempre in patria. Mancano dei sacrosanti pirati, che scassinino filnalmente i forzieri, che facciano saltare le cambuse a colpi di cannone e portino alla luce delle attesissime innovazioni, di loro creazione, rivelando la profonda ricchezza del role-playing game e non la superficie laccata dei galeoni.

Dopo pochi anni dalla nascita di internet sono sorti gli hackers a forzare gli ingressi dei sistemi e a scrivere nuovi programmi, virus, modalità di comportamento nei confronti della rete. Ecco che ora il grande sistema ludico, l’immensa rete di giocatori e di mercato ha bisogno esattamente di un qualcosa di speculare ed ancora sono troppo poche le persone che scrivono da sole giochi, che inventano nuovi mondi, che prendono spunto dal mercato e poi si animano per conto loro.

C’è ancora troppa dipendenza (rinvigorita ultimamente dai fatali e infidi Giochi di Carte Collezionabili) e poca illegalità. È anche per questo che Elish è autoprodotto, autodistribuito e non protetto da S.I.A.E.. Ciascuno deve potere attingere liberamente alla cultura di gioco (come era un tempo per i giochi popolari o i racconti e i miti) e modificarla o ritualizzarla a sua misura. Sarebbe ridicolo immaginare un mondo alla Philip Dick ove qualche multinazionale abbia posto un marchio di appartenenza e abbia brevettato a suo nome il mito di Prometeo, un mondo ove chiunque volesse raccontare quel mito o citarlo o ne attingesse come ad un archetipo di racconti dovesse pagare una tassa ai proprietari.
Ebbene in qualche modo questo, nel campo dei giochi di ruolo, è stato fatto, esplicitamente ed implicitamente.
Una casa editrice pubblica un manuale in cui è narrato come giocare nel mondo fantastico di J.R.R. Tolkien e automaticamente affianca a questa pubblicazione un messaggio insano, errato e falso: «non potete giocare a Il Signore degli Anelli se non comprate il nostro manuale. Noi abbiamo scritto come si gioca e se vorrete potrete comprare altri 12 libretti di espansione  che vi faranno giocare ciascuno una situazione del libro!».
È assurdo, ma sta accadendo.
Ci vogliono molte voci, molti narratori che spieghino al giocatore di leggersi il libro originale e inventarsi ciò che desidera, senza nessun obbligo nei confronti del mercato nè dell’autore , poichè (e di questo insegnamento siamo molto debitori al teatro contemporaneo) ciascuno è autorevole almeno quanto William Shakespeare.

Non riesco ancora a valutare con coscienza quello che sto attuando nel praticare Elish contemporaneamente alla mia esperienza con il gruppo Ygramul. So che le due cose sono strettamente legate, ma il gruppo Ygramul e il gruppo che con me porta avanti Elish sino ad oggi non si sono realmente mai incontrati.
In questi ultimi anni, osservando la mia pratica del gioco di ruolo e del teatro in ambiti molto complessi ed estranei sia al teatro classico che al role-playing game (ospedali, carceri, scuole, campi profughi, strade), mi sono reso conto che qualcosa di interessante sta emergendo dalla massa di esperimenti.
Posso solamente aggiungere di aver più volte compreso che molte tecniche del gioco di ruolo, come alcune dinamiche teatrali, possono non avere nessuna direzione terapeutica ma in realtà, con un sapiente utilizzo degli strumenti da parte del master e con un’ampia voglia di stravolgere i preconcetti sul gioco, sono mezzi fortemente terapeutici ed educativi.
Il gioco di ruolo contiene realmente il nucleo della pedagogia moderna e la sua complessità racchiude grandi energie di autoanalisi, socializzazione, critica e collaborazione  terapeutici.

 

 

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